Una ragazza incipit
«Rosa è ‘na zoccola!» continuava a ripetere Renato mentre percorrevamo in salita via Mezzocannone per raggiungere la segreteria della facoltà di Scienze.
Ma si sbagliava, perché, se vogliamo attenerci all’accezione più consueta del termine, Rosa era molto più di una zoccola qualsiasi.
Anzi, non lo era affatto.
Giacché ho deciso di parlarne, devo innanzitutto riferire che nessuna delle nostre compagne di corso o delle ragazze che ci capitava di frequentare poteva sostenere a lungo il confronto con lei. Non parlo dell’aspetto fisico, che pure era un suo connotato significativo, ma della capacità che aveva di eludere gli schemi, ovvero quelle categorie mentali alle quali tutti noi siamo ancorati dalla nascita, e che il più delle volte ci impediscono di prendere il largo. Rosa a un certo punto della sua vita aveva deciso di salpare l’ancora e affrontare da sola le insidie del mare aperto. Per ciascuna delle scelte fatte avrebbe pagato un dazio, ma il costo per sopravvivere sarebbe stato altissimo. E lei questo non poteva neanche immaginarlo.
Fin dai primi tempi della nostra amicizia, Rosa non aveva esitato a manifestare, con disinvoltura e impudenza, la sua spiccata attitudine per il sesso e la tendenza a sopprimere ogni altra emozione a esso contigua. Il suo approccio con i sentimenti non rientrava nei canoni che fino ad allora avevo sperimentato, eppure sapevo che in passato era stata innamorata, e avevo buoni motivi per credere che lo fosse ancora.
Oggi, a distanza di tanto tempo, potrei considerare la sua sessualità articolata e complessa, ma allora avevo vent’anni e una visione ancora molto parziale della vita. Comunque sia, imparai ad astenermi da qualsiasi giudizio su di lei e preferii lasciarmi sorprendere ogni volta che me ne dava l’opportunità. E ogni volta la sua disinvoltura si rivelava una nuova occasione per riconoscere i limiti della mia libertà.
I comportamenti spregiudicati che spesso esibiva furono difficili da accettare perfino per quelle ragazze che – eravamo sul finire degli anni Settanta – avevano fatto dell’emancipazione femminile il loro stile di vita. Ma Rosa fu libera e spensierata interprete di tutti quegli slogan che affollavano i cortei del turbolento decennio che si stava concludendo. E ne andava fiera perché aveva saputo riconoscere i diritti che le altre urlavano nelle piazze molto prima di loro, quando era ancora una bambina e viveva in campagna, lontana dalle suggestioni della politica e da ogni genere di protesta collettiva.
«Non fidarti di lei e non innamorarti mai!» aggiunse Renato, dispensando un consiglio – peraltro non richiesto – che era solo un banale tentativo di depistaggio. Conoscevo infatti i suoi modi contorti di affrontare l’esistenza e il fare guardingo che indispettiva tutti, per cui provai a troncare la discussione: «Non sono innamorato di Rosa, siamo soltanto amici e basta. Pensa a te!».
Renato era un napoletano collinare, garbato e polemico, frequentava il mio stesso corso di studi e proveniva da una agiata famiglia del Vomero. Viveva in un appartamento all’ultimo piano di un elegante condominio in via Luca Giordano che i suoi genitori, entrambi medici, avevano da poco acquistato. La speculazione edilizia degli anni Sessanta a Napoli aveva prodotto due effetti molto vistosi: devastato in breve tempo le campagne nelle zone alte della città e selezionato in modo drastico la popolazione. Sulla spinta del boom economico e demografico, infatti, chi poteva abbandonava i vicoli dei quartieri popolari e risaliva le colline in cerca di appartamenti moderni e luminosi. Chi non poteva restava a respirare il fetore dei bassi o ad affollare le sterminate periferie che stavano sorgendo a nord della città. Renato apparteneva a un’altra categoria: quella dei napoletani che ricchi erano sempre stati e che conducevano le loro agiate esistenze tra i quartieri più esclusivi e le abitazioni di vacanza a Ischia o a Capri.
«Conosco Rosa ormai da parecchio tempo, ma proprio non la capisco, non so mai quando scherza o quando fa sul serio. A volte penso che mi sta pigliando in giro, poi subito dopo mi parla seria e convinta, e io cambio idea. Insomma, me manna ‘o manicomio» proseguì affaticato. L’espressione gergale “mi manda al manicomio” rendeva bene il suo stato di confusione mentale in quel periodo. Bisogna anche dire che Rosa non scherzava quasi mai e questo Renato davvero non l’aveva capito. Lei prendeva quello che voleva, quando voleva e nessuno le diceva mai di no. «Dai, come ci si può fidare di una così?» aggiunse. Le maniere furtive che permeavano ogni discorso di Renato erano davvero irritanti. A lui non interessava affatto la mia opinione su quegli atteggiamenti di Rosa che giudicava ambigui o immorali. La pletora di domande che mi indirizzava gli serviva soltanto per farsi raccontare dei fatti che con ogni probabilità ignorava e che avrebbero potuto fornirgli preziose informazioni su di lei.
Benché fosse troppo pedante e noioso, tutto sommato consideravo Renato un buon amico, e anche quel giorno volli essere tollerante con lui: «Renato, Rosa è una ragazza diversa dalle altre, fattene una ragione!». Con quella affermazione, in apparenza neutrale e, comunque, non ostile, credevo di potere arginare la sua frenesia. Altre volte ci ero riuscito, ma quella mattina fu del tutto inutile. Lui colse soltanto l’ambiguità inclusa nelle mie parole e continuò a infliggermi lo stillicidio di domande e considerazioni che gli servivano per irrobustire la tesi che aveva in mente, ovvero che Rosa fosse una zoccola, senza se e senza ma. La facoltà di Scienze era proprio in cima alla ripida via Mezzocannone – arteria nevralgica della vita universitaria napoletana – che molti studenti da tempo affermavano fosse più lunga in salita che in discesa. L’edificio, che allora ospitava alcune aule e gli uffici amministrativi, fa parte del maestoso complesso di epoca rinascimentale che delimita il lato orientale della strada. Arrivammo già trafelati e la discussione su Rosa si interruppe soltanto per il tempo necessario a salire le imponenti scalinate di piperno che conducevano all’ultimo piano.
«Vorrei capire che cosa ha in testa quella lì, oltre al cazzo» incalzò appena ebbe ripreso fiato. «Vorrei capire a te che te ne fotte di lei e di quello che fa. Saranno cazzi suoi?» urlai. Non ero mai stato così esplicito e brusco con lui, benché già in altre occasioni avessi provato a stanarlo dal rifugio di ipocrisia nel quale si era accomodato, obbligandolo ad ammettere, una volta per tutte, la sua delirante passione per Rosa. Renato era ossessionato da lei e, se indagare i suoi veri o presunti affari amorosi gli permetteva a volte di placare certi sospetti, il terrore di scoprire che la ragazza potesse essere succube di chissà quali vizi o perversioni lo gettava sempre nel panico. Sebbene la considerasse una grandissima e fottutissima zoccola – erano queste le espressioni più benevole che di solito utilizzava – non riusciva ad affrancarsi da lei e da una deriva morbosa che rischiava di condannarlo a una perenne condizione di subalternità.
«Che cosa ti prende? Ti ho fatto solo una domanda.» Renato si era stupito della mia reazione, ma io proprio non riuscivo a sopportare quelli che parlavano male di lei senza conoscerla o che la denigravano per il solo fatto di non avere avuto accesso alle sue graziose intimità. Replicai soltanto per il piacere di innervosirlo: «Comunque, Rosa è una ragazza libera, molto libera». Il retrogusto sapido della mia rappresaglia durò solo un attimo. Mostrando il solito sguardo obliquo e impaurito, Renato mi incalzò: «Che cosa vuoi dire, che significa molto libera?». Fui obbligato a una resa incondizionata. Dovetti abbandonare, per quella mattina, la speranza di sottrarmi agli effetti della sua ossessiva dipendenza da Rosa. «Intendo dire che lei fa sempre quello che vuole. Anzi, sai cosa penso veramente? Penso che è venuta a Napoli non solo per studiare ma anche per sentirsi libera, comme t’aggia di’, per liberare i suoi istinti. Tu lo sai, in una grande città non sei nessuno, e forse è proprio questo che lei vuole: non essere nessuno, tranne che sé stessa.» La mia vaghezza gli diede lo spunto necessario per non demordere. «Tu la frequenti, la conosci meglio di me, ma non dirmi che sei riuscito a capire che cazzo vuole quella lì dalla vita» affermò con tono spazientito. Mi sembrava che Renato, sfinito dalle sue stesse elucubrazioni, cercasse ogni volta di aggiungere un nuovo, doloroso tassello al complicato mosaico che era per lui la vita di Rosa Grieco.
«Vedi, Renato: Rosa è una femmina e perciò è incomprensibile; per te, per me e forse per tutti i maschi di questo mondo. Tu devi avere un approccio agnostico con le femmine, soprattutto con una come lei. Poi, te l’ho già detto, che te ne importa di quello che fa? Lasciala perdere!» Più volte avevo cercato di distogliere Renato dalla sua fissazione per Rosa. Ero arrivato perfino a offenderlo e disprezzarlo, ma il furore emotivo prevaleva sulla sua dignità e qualsiasi suggerimento o consiglio che gli dessi finiva inghiottito nel vortice dell’insana passione che da tempo stava coltivando.
Comunque, era vero, io conoscevo molto bene Rosa, ma era anche vero che non avrei potuto insegnargli granché sui comportamenti delle donne. Avevo impiegato mesi per capirla e ci ero riuscito solo perché lei aveva deciso di svelarsi, e il motivo che l’aveva indotta a farlo attiene all’ambito effimero e imponderabile delle relazioni umane.
È sempre difficile ricostruire le azioni inconsce che favoriscono un incontro, per quanto casuale esso possa apparire, o la successione di eventi che consolidano un’amicizia. Proverò a farlo, ma, al momento, mi preme dire che i decenni trascorsi hanno solo appannato il ricordo di quella ragazza inquieta che, nata per caso alla fine dei prolifici anni Cinquanta e diventata donna nei travagliati Settanta, aveva lasciato il suo paese a vent’anni e scelto Napoli come approdo per lo smanioso desiderio di vita che la tormentava; la ragazza a cui piaceva confondersi tra la gente lasciandosi travolgere dalle suggestioni di una città bella e passionale; che amava il degrado fisico e l’ambiguità di certi rioni popolari; che sapeva essere napoletana molto più dei napoletani e femmina scaltra più di tante altre. Come quando raccontava, a chi non la conosceva, di essere nata in quel tale vicolo o in quella piazzetta dei Quartieri Spagnoli, dove la vita si impara in fretta e dove si può anche perderla in pochi, scellerati attimi. Oppure ai Vergini, nel cuore della Sanità, dove sai che dall’inferno si può anche uscire, ma solo per ritrovarsi smarriti in un luogo estraneo che tutti chiamano Capodimonte. E ogni volta s’inventava una storia diversa, ma sempre con la medesima ambientazione: le cupe viscere di Napoli. Così lei chiamava quei luoghi dove il popolo esiste per davvero, dove si può annusare la vita e poi scappare, oppure restare. Luoghi dove sopravvive ancora la disperata umanità che ha attraversato i secoli senza mai venire allo scoperto, confinata negli spazi angusti della propria rassegnazione. Rosa fu amante di molti ma seppe anche essere amica dei tanti a cui non si era mai concessa e dei quali talvolta subiva le ingiurie.
Eravamo diventati amici in un limpido pomeriggio di inizio novembre, quando a Napoli le temperature ancora miti fanno sembrare l’inverno irraggiungibile e l’odore del mare dà respiro a tutta la città.